Ancient and modern grains, gluten intolerance and pesticides: Enzo Spisni answers readers’ questions
Grani antichi e moderni, intolleranza al glutine e pesticidi: Enzo Spisni risponde alle domande dei lettori
(DA: Redazione Il Fatto Alimentare 11 Agosto 2017)
La questione dei grani antichi e della sensibilità al glutine fa molto discutere. Non sorprende quindi, che l’articolo “Pasta con grano antico o moderno: il problema dell’intolleranza al glutine è lo stesso? Spisni risponde a Bressanini” abbia scatenato un acceso dibattito. Ecco le risposte di Enzo Spisni, docente di Fisiologia della Nutrizione all’Università di Bologna, ai tanti commenti dei lettori del Fatto Alimentare.
Prima l’incipit. Ho sottolineato che tutti possono fare divulgazione scientifica, ma solo tre figure hanno le competenze e possono (per la legge italiana) modificare il modo di alimentarsi e la dieta delle persone. In un paese in cui troppi parlano di diete senza avere competenze e in cui famosi farmacisti vanno in televisione a suggerire diete e dichiarano di avere migliaia di “pazienti”, mi sembra quantomeno un appunto doveroso.
Veniamo alle definizioni. Si definiscono antichi o tradizionali le cultivar presenti prima della cosiddetta “Rivoluzione Verde”. Le differenze sostanziali tra i grani pre-rivoluzione e quelli post-rivoluzione possiamo riassumerle in quattro punti:
1. La forza del glutine. Si parte da grani che hanno un valore W di forza del glutine di 10-50 e si arriva ai moderni che hanno una forza intorno ai 300-400. È evidente che la struttura del glutine cambia per venire incontro alle necessità dell’industrializzazione degli alimenti.
2. La taglia. I grani pre-rivoluzione sono a taglia alta (diciamo oltre il metro e trenta), mentre i post sono a taglia bassa (molto al di sotto del metro).
3. La produttività per ettaro, che aumenta molto nei moderni a fronte però dell’aumento dell’input di azoto attraverso la concimazione. Lascio il discorso su quanto azoto per ettaro agli agronomi, ma chi in campo è passato dal coltivare moderni in convenzionale a grani antichi in biologico si è reso ben conto del risparmio in denaro generato dalla minore concimazione e dal minore uso di chimica.
4. La minore variabilità genetica, nel senso che le cultivar antiche erano un insieme di genotipi con una biodiversità complessivamente elevata, mentre post-rivoluzione si è andati verso la selezione di grani “in purezza”, fatta di piante tutte geneticamente identiche, con una perdità netta di biodiversità non trascurabile. In altre parole è cambiato il concetto di adttamento: mentre una variabilità genetica ampia è in grado di adattarsi ai mutamenti ambientali, una variabilità genetica ridotta richiede un maggior intervento dell’uomo nel tentativo di meglio adattare il campo al tipo di grano coltivato. E l’intervento dell’uomo molto spesso si traduce in utilizzo di prodotti chimici.
In Emilia Romagna è partito il progetto Virgo, che mette in campo cinque cultivar antiche contemporaneamente
Un esempio pratico di questa biodiversità nei campi di grano è rappresentato dal progetto “Virgo”, finanziato dalla Regione Emilia Romagna e non dagli interessi di marketing di qualche multinazionale. Il grano Virgo è un insieme di cinque diverse cultivar pre-rivoluzione verde, seminate contemporaneamente proprio con lo scopo di amplificare la biodiversità in campo. È evidente che ad una maggiore biodiversità vegetale, corrisponda anche una maggiore biodiversità animale nel territorio. E questo è un valore universalmente riconosciuto, che spero nessuno vorrà mettere in dubbio. È altrettanto evidente che il grano non è l’unica monocultura ad avere problemi di scarsa biodiversità.
Chi sostiene che il “breeding”, cioè il miglioramento genetico, si è sempre fatto anche in passato e molto prima della rivoluzione verde non tiene conto del drastico cambiamento delle modalità di selezione e di induzione delle mutazioni. Durante la rivoluzione verde si arriva perfino all’utilizzo di radiazioni ionizzanti, cosa che oggi per legge non potrebbe essere fatta in Italia né nella maggior parte dei paesi industrializzati.
Sul fatto che non esisterebbero grani pre-rivoluzione verde di provenienza certa, posso tranquillizzare chi sospetta che sia tutta una questione di marketing: da quest’anno il Cappelli è passato ufficialmente alla Società Italiana Sementi. Quanto alle altre cultivar siciliane e non, hanno caratteristiche morfologiche così diverse che è molto difficile per esperti del settore confonderle con grani post-rivoluzione.
Veniamo alla celiachia. Tutte le società scientifiche internazionali che si occupano della celiachia sono concordi nell’affermare che stiamo assistendo ad un aumento dell’incidenza, perlomeno nelle popolazioni dei paesi in cui le statistiche sono attendibili. E questo non solo per merito delle metodiche più accurate o per il maggior controllo medico. Ricerche scientifiche effettuate con i medesimi strumenti disgnostici su banche di sangue congelato, dimostrano chiaramente che questo aumento di prevalenza esiste, soprattutto dagli anni ’50 in poi. Quale sia la causa non è facile definirlo, e probabilmente si tratta di molti fattori concorrenti. Di certo però gli affetti da celiachia non possono assumere nessun tipo di glutine, nemmeno grani antichi o antichissimi. Da questo punto di vista non ci sono differenze tra i grani. Questo bisogna dirlo con chiarezza, ma i celiaci in genere lo sanno bene e acquistano solo prodotti certificati gluten free. Le mie critiche a Bressanini non riguardano certamente questo punto!
Uno studio recente ha osservato reazioni diverse ai grani antichi e moderni in bambini con diagnosi di sensibilità al glutine
Sulla sensibilità al glutine (o al grano) non celiaca, invece, o più in generale sulle caratteristiche pro-infiammatorie dei grani, il discorso è molto più articolato. È vero che secondo i criteri delle conferenze scientifiche la diagnosi va fatta da un gastroenterologo dopo un challenge con glutine in doppio cieco, ma è altrettanto vero che nella pratica clinica questo test non si fa quasi mai, sia per motivi di costi che di tempi. Pur con tutti questi limiti, ci sono pochi dubbi sul fatto che questa patologia esista (vedasi le conclusioni delle diverse consensus conference di esperti mondiali, tenutesi dal 2011 ad oggi).
Gli articoli scientifici citati, che sono solo una piccola parte della letteratura scientifica sui grani pre-rivoluzione verde, mettono in evidenza che ci sono differenze nelle caratteristiche pro-infiammatorie tra alcuni grani antichi e alcuni moderni. Nessuno studio potrebbe mai mettere a confronto tutti i grani pre-rivoluzione con tutti quelli post, perché sono troppi. E quindi questi studi si limitano a confrontare solo alcuni grani tra loro. Il fatto che siano studi fatti con pochi pazienti (quello di Whittaker con 21 diabetici e due differenti tipi di grano, quello di Valerii con 48 pazienti sensibili al glutine e 4 tipi di grano) si spiega facilmente con i costi elevati dei trial clinici. Chi li sostiene? La maggior parte delle aziende che commercializzano grani pre-rivoluzione sono piccole o molto piccole e non possono permetterselo. Quindi non trovo scandaloso che alcuni di questi studi (quello di Whittaker si, ma quello di Valerii no) siano stati finanziati dall’azienda più grande che fa business su questi prodotti. A chi demonizza i trial clinici in doppio cieco sponsorizzati da aziende multinazionali ricordo che tutti i farmaci che acquistiamo in farmacia hanno seguito esattamente questo iter: dall’aspirina agli antibiotici. Certo, la Bayer può permettersi studi multicentrici con centinaia di pazienti, mentre altri si debbono fermare a numeri più contenuti. Resta il fatto che uno studio svolto in doppio cieco su 20 pazienti ha comunque una sua validità, ed infatti è stato pubblicato su di una rivista scientifica molto importante. Nell’articolo di Alvisi del 2017 che ho citato (finanziato principalmente dall’Università di Bologna), su un piccolo gruppo molto ben selezionato e seguito di bambini sensibili al glutine, si è osservato che la reintroduzione di grani moderni faceva riapparire i sintomi gastrointestinali in poche ore, mentre la reintroduzione di due diversi grani antichi (quelli che più facilmente le mamme potevano trovare al supermercato) li faceva riapparire in modo più graduale e moderato e solo dopo parecchi giorni, a sottolineare che differenze tra i diversi grani ci sono e si possono osservare clinicamente.
Il frumento khorasan è considerato un grano turanico pre-rivoluzione verde
Dal mio punto di vista, il grano khorasan è un turanico pre-rivoluzione verde. Viene commercializzato principalmente da una multinazionale americana con un nome registrato ma, non lo dimentichiamo, anche da piccoli produttori italiani con nomi commerciali diversi (ad esempio Graziella Ra). A chi sospetta un mio “conflitto di interessi” posso certificare che non ho mai firmato contratti di ricerca sponsorizzata da aziende con business centrato sui grani, pur avendo partecipato come ricercatore a diversi progetti sui grani pre-rivoluzione finanziati sia da enti (Regione Emilia Romagna) che da aziende (piccole e grandi).
Veniamo ad azoto, pesticidi e glifosato. In Emilia Romagna l’azoto veicolato in agricoltura ammonta a circa 141 milioni di kg di cui il 38% proveniente da allevamenti, il 60% da fertilizzanti e il 2% da fanghi di depurazione, distribuiti su una superficie agricola utile di circa 1 milione di ettari (dati Regione Emilia Romagna, documento Programma d’azione nitrati). Quindi anche in una regione dove gli allevamenti animali sono molti, la maggior parte dell’azoto non industriale che finisce nelle acque è dovuto ai fertilizzanti. Un programma analogo esiste in Lombardia. Se regioni importanti e all’avanguardia elaborano dei “Programmi d’azione nitrati” ritengo che un problema nitrati sia evidente. Nei documenti della regione Emilia Romagna si legge chiaramente che almeno fino al 2014 è stato necessario adottare deroghe ai regolamenti in diverse situazioni particolari.
Sui pesticidi, chi sostiene l’uso di un solo trattamento all’anno con un solo pesticida sul grano in convenzionale sembra avere una visione un po’ romantica. Basta sfogliare monografie sul grano edite dalle aziende produttrici di questi prodotti per scoprire l’esistenza di decine e decine di pesticidi pensati in modo specifico per il grano, che molto raramente si utilizzano singolarmente o una sola volta nell’arco del ciclo colturale.
Sul glifosato rimando i lettori ad un bellissimo articolo uscito recentemente su Internazionale (Monsanto Papers: il gigante dei pesticidi sotto accusa) che riprende un articolo apparso su Le Monde. Anche se fosse vero che in Italia non si usa più il glifosato, oggi il 30% del grano duro che mangiamo nella pasta è di origine nordamericana o canadese, e in questi paesi il clima è più umido e freddo rispetto al nostro meridione ed il glifosato è ampiamente utilizzato. Conosco aziende che misurano il glifosato nei grani duri importati e sono ben a conoscenza di questa presenza. È vero che nei prodotti venduti i valori sono sempre entro i limiti di legge, ma è pur vero che sui limiti di legge c’è ampio dibattito scientifico e grosse pressioni da parte di associazioni di multinazionali.
I grani antichi si coltivano prevalentemente in modo biologico, sono macinati a pietra e vengono essiccati a basse temperature
In conclusione quello che ho cercato di chiarire nel mio articolo è che per il consumatore i grani non sono tutti uguali. E questo è ancora più evidente se si osserva l’intera filiera produttiva: i grani antichi si coltivano esclusivamente in regime di agricoltura biologica o biodinamica, non vengono miscelati con grani nordamericani o dell’est-Europa, vengono macinati quasi esclusivamente a pietra e, nel caso della pasta, vengono essiccati a basse temperature. Queste non sono solo questioni di marketing: i grani antichi rappresentano certamente una nicchia di mercato in crescita, che permette di sostenere costi produttivi più elevati (e forse per questo la Società Italiana Sementi in accordo con Confagricoltura ha deciso di riprendersi il Cappelli).
Per quanto riguarda la salute invece, probabilmente il 90% delle persone, che non hanno problemi di sensibilità al glutine o di infiammazione cronica, possono mangiare qualsiasi grano senza percepire differenze di alcun tipo. Ma per una parte certamente minoritaria di persone, la scelta di quale grano mangiare può contribuire a stare meglio. E prima di decidere di abbandonare totalmente il glutine pur in assenza di celiachia, pratica assai di moda negli USA e che per gli amanti della dietrologia ha anche risvolti di marketing non trascurabili, suggerisco di provare con i grani pre-rivoluzione verde (antichi, tradizionali o anziani che siano).
Da ricercatore, sono convinto che sia importante andare avanti. Quindi tutto questo non deve essere letto come un tentativo di ritornare all’antico e cancellare i progressi fatti fino ad ora. Credo sia tempo di ricominciare nuovi progetti di breeding sul grano che siano di ampia scala e tengano in considerazione l’esperienza passata, le necessità industriali ma anche quelle del territorio e della salute dei consumatori.
Enzo Spisni, docente di Fisiologia della nutrizione Università di Bologna e responsabile scientifico del master in Alimentazione ed educazione alla salute.
© Riproduzione riservata
Back